Venerdì 04 Marzo 2016, h 12:00
Il ventre della collina
L’appello alla memoria e il monito per i “tempi di pace” della guerra civile Bosniaca, dal libro di Alberto Bobbio “Truccarsi a Sarajevo”
Novara, Teatro dell'Istituto Salesiano San Lorenzo
» Mostra mappa
Rappresentazione teatrale
Con: Maria Rosa Franchini, testo; Toni Mazzara, attore professionista; Alberto Bobbio, caporedattore del settimanale Famiglia Cristiana
Per iniziativa e con il contributo di: Associazione Liberazione e Speranza Onlus
A cura di: Comitato per il Progetto Passio

VIDEO


FOTO


TESTI


DESCRIZIONE

CRONACA

 

«IL VENTRE DELLA COLLINA»
Sul palco del “San Lorenzo”, in teatro il racconto del conflitto Serbo-Bosniaco

Il vagito di Lucas, estratto ancora vivo dal seno sventrato della giovane madre, è il grido di speranza che si leva dalla guerra spietata narrata da “Il ventre della collina”, il monologo di Mariarosa Franchini presentato pubblicamente per la prima volta venerdì 4 marzo ai giovani delle scuole di Novara dal palco del Teatro dell’Istituto Salesiano “San Lorenzo”. Un’operazione proposta e sostenuta dall’associazione Liberazione e Speranza Onlus per ricostruire la tragedia del conflitto inter-etnico tra Serbi e Bosniaci che nei primi anni ’90 del secolo scorso insanguinò i Balcani. Salko Dedic, impersonato dall’attore Toni Mazzara, racconta il suo lavoro di responsabile del cimitero di Tuzla, a 100 km da Sarajevo. Qui, in un tunnel scavato sulle pendici di una collina, sono stipate oltre 3000 salme, raccolte dalle fosse comuni e in attesa di identificazione. Un lavoro costoso e difficile perché – spiega al pubblico Alberto Bobbio, caporedattore di Famiglia Cristiana, che nel 2000 realizzò l’intervista cui il racconto si ispira – «pochissime sono state trovate con i documenti di identità; alle altre si può dare un nome solo con le analisi del DNA. Esse vengono svolte al ritmo di 2000 al mese nell’obitorio frigorifero, il più grande al mondo, costruito a Tuzla nel 2003 con fondi internazionali: da allora 6000 corpi sono stati riconosciuti e ricostruiti, mentre 2000 frammenti – crani, mani, tibie – hanno un’identità ma mancano ancora del resto del corpo». Si realizza così un atto di pietà richiesto dai famigliari, e necessario per restituire ai morti la dignità di persone. «Essa fu calpestata – afferma Bobbio – in nome di odi tra etnie e religioni, contrapposte ad arte per mascherare i conflitti tra interessi economici e politici, cause prime di questa e di ogni guerra». Una guerra che non è finita, benché le armi tacciano, nella Bosnia ancora oggi ostaggio del suo tragico passato.



PRESENTAZIONE

 

«IL VENTRE DELLA COLLINA»
Un appello alla memoria e il monito per i tempi di pace dalla guerra civile Bosniaca

Dal palcoscenico la denuncia di un genocidio, per riflettere e non dimenticare. È quanto Passio 2016 propone venerdì 4 marzo, alle ore 12, presso il Teatro dell’Istituto Salesiano “San Lorenzo” di Novara (in viale Ferrucci 33) con la prima rappresentazione dello spettacolo “Il ventre della collina”, un monologo scritto dall’autrice e attrice novarese Mariarosa Franchini su spunto offerto dal libro “Truccarsi a Sarajevo” del giornalista Alberto Bobbio. Realizzata per iniziativa e con il sostegno economico dell’associazione Liberazione e Speranza Onlus, la rappresentazione pone a tema i massacri che tra il 1991 e il 1995 insanguinarono la Bosnia in seguito all’esplodere delle tensioni etniche nella federazione Jugoslava. Fatti trascorsi da appena 20 anni – eppure quasi scomparsi dalla memoria collettiva – che l’autrice osserva da un punto di vista di assoluta originalità: il racconto-confessione di Salko Dedic, responsabile del centro che, a Tuzla – a 100 km da Sarajevo –, custodisce le salme di oltre 3000 vittime in attesa di identificazione. A impersonarlo è l’attore Toni Mazzara, professionista attivo in teatro, radio, cinema e numerose fiction televisive. Al termine Alberto Bobbio – caporedattore del settimanale “Famiglia Cristiana” – dialoga dal palco con il pubblico, offrendo la sua testimonianza di inviato in Bosnia-Erzegovina agli inizi degli anni 2000. Rivolto in special modo agli studenti delle scuole superiori, l’appuntamento è aperto a chiunque desideri partecipare. Per riflettere e non dimenticare.

 

LO SPETTACOLO

È l’inizio degli anni 2000. A Tuzla – 100 km da Sarajevo – sulla collina c’è un cimitero, pieno di lapidi. Ma nel tunnel che la attraversa, lungo 35 metri e chiuso da una porta di acciaio, giacciono insepolti i corpi di 3020 tra uomini, donne e bambini. Recuperati da molteplici fosse comuni, attendono di essere identificati dagli esperti del Tribunale dei crimini di guerra dell’Aja, per accertare i massacri che tra il 1991 e il 1995 insanguinarono la Bosnia in seguito all’esplodere delle tensioni etniche tra le nazionalità che convivevano nella federazione Jugoslava. Si tratta di musulmani bosniaci per la maggior parte, ma anche di croati cattolici, e nulla può escludere che tra essi ci siano serbi ortodossi, che non si sono lasciati prendere dal delirio etnico e omicida. «Com’è possibile che la vita, unica, preziosa e tanto amata, sia stata loro strappata da uomini che in uguale misura avevano cara la propria?». Lo chiede Salko Dedic, responsabile della struttura e incaricato della catalogazione delle salme e dei loro effetti personali. Un lavoro che è atto di misericordia e servizio alla verità, in un mondo che troppo facilmente dimentica, e che facilmente trascura i segnali che, in “tempo di pace”, dovrebbero destare allarme: l’intolleranza tra gruppi etnici e comunità religiose, l’ostilità ad accogliere i più deboli e i diseredati, visti come un pericolo. Il monologo di Dedic intreccia la descrizione del lavoro con il ricordo delle esistenze di colleghi e compaesani travolte dalla violenza cieca della guerra civile, e culmina nella denuncia: un urlo silenzioso si alza dalla collina, e non tacerà finché a queste ingiuste morti non sia data degna sepoltura e i corpi siano restituiti alla terra con la dignità dovuta a ogni vita, ai sogni, ai desideri, agli affetti che di questi resti fecero uomini, donne e bambini. Finché qualcuno non possa piangere su di loro, come su quelli sepolti sopra alla collina.